Skip to main content

CIRCE
E i suoi insegnamenti

Il testo è tratto dal libro “Circe” di Madeline Miller.
Narra la storia dell’esilio di Circe sull’isola di Eea. Il padre Elios infatti quando scopre che Circe non è una dea comune bensì una maga, capace di trasformare le ninfe in mostri, la ripudia e la condanna all’esilio.

Questo articolo nasce dalla descrizione che l’autrice, M. Miller, fa del cambiamento di Circe dal momento in cui scopre di saper usare la magia (pharmakeia).
Il parallelo con un processo di individuazione junghiano mi è sembrato evidente e credo che possa essere utile ripercorrerlo insieme estrapolando i momenti che ho trovato più significativi.

Circe: «Cos’è che hai detto quando mi hai guarito la pelle?»
Eete: «Una formula magica.»
C: «Me la insegni?»
E: «La magia non può essere insegnata. La scopri da sola, o non la scopri affatto.»
Ripensai al ronzio che avevo udito nel toccare quei fiori, a quell’inquietante conoscenza che avevo percepito scaturirmi dal profondo.
C: «Da quanto sapevi di poter fare cose simili?»
E: «Fin dalla nascita» mi rispose. «Ma ho dovuto aspettare di essere lontano dagli occhi di nostro padre.»

Circe sta parlando con il fratello Eete che ha capito da tempo di essere in grado di usare la magia. Dice a Circe di non poterle insegnare nulla perché la magia deve essere una scoperta personale. Invita quindi Circe a iniziare una ricerca.
Cercare qualcosa implica che ciò che cerchiamo esista già anche se al momento non si vede. Allo stesso modo la psicoterapia invita i pazienti a cercare qualcosa di non visto o ascoltato dentro se stessi.
Spesso i pazienti portano il desiderio e la fantasia di poter imparare qualcosa di “miracoloso” che cambi le loro vite. Circe passa attraverso la stessa frustrazione che con il tempo diventa una liberazione.
Eete aggiunge anche che ha dovuto imparare lontano dallo sguardo del padre. Come a dire che le vecchie abitudini e l’ordine costituito non dovevano intromettersi nel suo processo di scoperta e apprendimento. Come spesso succede per permettere a qualcosa di nuovo di emergere qualcosa di vecchio deve allontanarsi.
Forse vuole anche dirci che essendo il padre il Sole (il dio Elios) il suo lavoro di scoperta aveva bisogno della notte, dell’oscurità. Jung spesso associa l’inconscio alle ombre. Il luogo in cui si cela ciò che la coscienza non vuole o non è pronta ad accettare. Eete per scoprire se stesso ha dovuto confrontarsi con l’inconscio.
Circe dice anche di aver sentito qualcosa mentre toccava i fiori, un inquietante conoscenza scaturita dal profondo. Credo sia una buona rappresentazione dell’intuito che non ancora affiorato alla coscienza si esprime come un ronzio inquietante. Un ronzio che fa nascere la curiosità che permette a Circe di iniziare la sua ricerca.

Circe: «E se gli Olimpi cercassero di portarti via gli incantesimi?» Sorrise.
Eete: «Credo che non possano farlo, per quanto si sforzino. Come dicevo, la pharmakeia non sottostà ai consueti vincoli degli dei.»

Circe chiede allora a Eete cosa succederebbe se gli dei dell’Olimpo volessero portargli via la magia. Eete sembra dire che una volta che la magia è stata scoperta nessuno c’è la può più togliere.
Ciò che impariamo su noi stessi una volta acquisito non può più essere tolto o negato.

Eete cita nuovamente la parola pharmakeia riferendosi alla magia, come fossero sinonimi.
La parola pharmakeia pare avere un duplice significato. Da una parte fa riferimento a farmaco, droga, pozione magica, guaritore, avvelenatore e per estensione un mago o uno stregone; oggi diremmo farmacista o medico. Circe sarebbe quindi una strega che sta apprendendo i rudimenti della magia.
L’altro significato della parola pharmakeia è altrettanto interessante.  Pharmakos era il nome di un rituale largamente diffuso nelle città greche, simile a quello del capro espiatorio, che mirava ad ottenere una purificazione mediante l’espulsione dalla città di un individuo chiamato pharmakos (“il maledetto”).
Questa traduzione della parola pharmakeia mi sembra la più interessante. La magia avrebbe a che fare con l’espulsione di qualcosa che si ha dentro. Bisogna quindi togliere qualcosa per praticare una magia.
Eete introduce così un concetto che trovo estremamente affascinante e che verrà ripreso anche più avanti. Quello della riduzione. Come il processo di individuazione la magia non prevede l’acquisizione di qualcosa ma la perdita di qualcosa. L’espulsione di un pharmakos; qualcosa che dimora dentro di noi e che non ci appartiene. Per diventare una maga Circe dovrà quindi perdere qualcosa.
Curiosamente mentre Circe inizia il suo percorso interiore per praticare la pharmakeia anche l’ambiente che la circonda fa la stessa cosa. Infatti avendo scoperto la sua diversità viene indicata come pharmakos (maledetta, diversa) e quindi esiliata dal suo stesso padre.
Ogni cambiamento interno prevede una reazione dal mondo esterno.

Scrutai di nuovo nel folto di quella foresta. Il giorno prima – era solo il giorno prima? – ero rimasta in attesa che qualcuno venisse a dirmi che non c’erano pericoli. Ma chi mai avrebbe potuto farlo? Mio padre? Eete? L’esilio significava proprio quello: non sarebbe venuto nessuno, né ora né mai. Una consapevolezza che faceva paura, ma al confronto della notte trascorsa nel terrore, mi parve cosa piccola e insignificante. Il peggio della mia codardia era stato smaltito, lasciando il posto a una frastornante esaltazione. Non me ne starò come un uccello in gabbia, pensai, troppo stordito per volare via anche con la porta aperta. Entrai in quel bosco e la mia vita ebbe inizio.

Circe arriva sull’isola dove sconterà la pena dell’esilio. Accetta il fatto che non verrà nessuno a salvarla e decide di non avere paura e di trasformare il limite dell’esilio in una possibilità.
L’entrata nel bosco è simbolicamente la decisione di cominciare una nuova vita.
Il bosco come la vita è sempre misterioso, pieno di ombre e rumori sconosciuti ma è anche il luogo in cui si trovano i fiori e gli elementi utili per creare nuove magie.

Imparai a intrecciarmi i capelli all’indietro, così da non impigliarmi a ogni ramoscello, e a legarmi la veste al ginocchio, così da non offrirne gli orli alle spine. Imparai a riconoscere i rampicanti in fiore e le rose dai colori sgargianti, ad avvistare le libellule e i serpenti arrotolati in spire.

Mi ubriacai, come mai avevo fatto con il vino e il nettare nelle sale di mio padre. Non c’è da meravigliarsi che io sia stata così lenta, pensai. Per tutto questo tempo sono stata una tessitrice senza lana, una nave senza mare. E guarda adesso dove veleggio. La sera tornai nella mia casa. Non mi turbavano più le sue ombre, poiché indicavano che lo sguardo di mio padre aveva abbandonato il cielo e le ore erano mie soltanto. Nemmeno mi turbava più il vuoto. Per mille anni avevo cercato di colmare lo spazio tra me e la mia famiglia. Riempire le stanze della mia casa era semplice al confronto. Bruciavo legno di cedro nel camino, e il suo fumo scuro mi faceva compagnia. Cantavo, cosa che prima non mi era mai stata concessa, poiché mia madre diceva che la mia voce era quella di un gabbiano in procinto di annegare. E quando mi sentivo sola, quando mi sorprendevo a struggermi per mio fratello, o per Glauco nella sua forma originaria, c’era pur sempre la foresta. [….] giorno dopo giorno mi feci più audace, e infine mi inginocchiai nella terra umida di fronte a una macchia di ellebori.

Circe si è ormai adattata alla vita sull’isola e non ne ha più paura.
Torna il tema della riduzione. Si lega i capelli e la veste. Apparentemente restringe il suo spazio. In realtà sta praticando la pharmakeia. Toglie, diminuisce, restringe per poter essere sempre più se stessa.
Riconosce che l’esilio le ha permesso di liberarsi dai vincoli della sua famiglia e dell’ambiente in cui viveva. Tutto ciò che pensava di aver perso le è stato restituito sotto forma di una nuova consapevolezza di se.
Non ha più paura delle ombre. Come il fratello Eete prima di lei si è dovuta confrontare con l’inconscio fatto di ombre e oscurità. Adesso quando si sente sola o in difficoltà trova conforto nella foresta che ormai è diventata la sua casa, una rappresentazione dell’Io. Circe sta dicendo che sta bene con se stessa. Ha trovato la lana e il mare in cui navigare.
Emergono così piaceri un tempo frustrati. Può cantare perché non c’è più la madre che la critica.
Il tema del canto tornerà ancora. Sarà un altro elemento legato all’idea della riduzione. Fino a quel momento il suo canto era insopportabile per gli altri dei. La voce gli sembrava troppo stridula e fastidiosa. Grazie all’incontro con Ermes scoprirà che la sua voce somiglia quella degli uomini, per questo gli dei non la tollerano.
Circe somiglia sempre più ad un umana più che a una dea. La voce, le fatiche del lavoro, la ricerca, la frustrazione, la paura…. ma anche la soddisfazione, l’appagamento, la scoperta.
Circe può ritrovarsi solo nel momento in cui scende dall’Olimpo ed entra nel Mondo. Potremmo dire che si riduce ad essere più umana ma è proprio questo a liberarla.

Di regola, non mi sarei mai dovuta dedicare alla magia. Gli dei odiano ogni tipo di fatica, è nella loro natura. Al massimo possiamo tessere o forgiare metalli, ma questi sono talenti, non comportano alcuna fatica, poiché ogni aspetto che potrebbe essere sgradevole è vinto dal potere. La lana non viene tinta mescolando con il cucchiaio in tinozze maleodoranti, bensì con uno schiocco di dita. Nessuna tediosa attività di estrazione: i minerali grezzi balzano fuori spontaneamente dalla montagna. Niente dita rovinate, né muscoli affaticati. La magia invece non è altro che un lavoro ingrato. Ogni erba dev’essere trovata nel suo ricettacolo, raccolta nel momento giusto, liberata dalla terra, selezionata e mondata, lavata e preparata. Dev’essere trattata in un modo, e poi in un altro, per scoprire dove risiede il suo potere. Giorno dopo giorno, con pazienza, bisogna scartare gli errori e ricominciare da capo. Allora perché non mi pesava? Perché non pesava a nessuno di noi?

All’inizio, ovviamente, ogni intruglio che preparavo era un errore. Pozioni prive d’effetto, impasti che si sbriciolavano crollando inerti sul tavolo. Pensavo che se di ruta ne funzionava un pizzico, un po’ di più avrebbe funzionato meglio, che una mistura di dieci erbe fosse più efficace di una di cinque, che se anche lasciavo vagare la mente l’incantesimo non l’avrebbe seguita, che potevo cominciare a preparare una pozione e poi, a metà dell’opera, optare per un’altra. Non possedevo nemmeno quel poco di erudizione erboristica che ogni mortale avrebbe appreso fin da piccolo:

Se non altro, pensavo quei primi tempi, una volta lanciato un incantesimo, non dovrò impararlo di nuovo. Ma nemmeno questo era vero. Per quante volte avessi già utilizzato un’erba, ogni germoglio possedeva un proprio carattere. Una rosa avrebbe rivelato i suoi segreti se macinata, un’altra se pressata, una terza solo se messa in infusione. Ogni incantesimo era una montagna da scalare da capo. La sola certezza che mi rimaneva dal precedente, era che fosse possibile realizzarlo.

“La magia è un lavoro ingrato”.
Già. Non è tutto facile come per gli dei. A loro non piace, troppa fatica, ci si sporca le mani.
La magia non ha a che fare con i talenti ma con la ripetizione, gli errori, la fatica e con la pazienza.
Una volta capito come funziona un incantesimo bisogna reimpararlo per usarlo di nuovo.
Come in processo di individuazione si sbaglia, si ricomincia, i successi possono essere effimeri o arrivare lentamente. Eppure nonostante queste difficoltà vale la pena iniziare e procedere.
La stessa Circe non si spiega perché non le pesassero tutte queste fatiche. Nelle ultime righe di questo paragrafo dice che ogni montagna scalata le dava la certezza che sarebbe riuscita a scalare anche la successiva.

Nella mia stanza da letto c’era uno specchio di bronzo alto fino al soffitto. Quando ci passai davanti, mi riconobbi a stento. Il mio sguardo sembrava più luminoso, il mio viso più affilato, e subito dietro di me, ad accompagnarmi, la mia leonessa selvatica, il mio spirito compagno. Immaginavo che cosa avrebbero detto le mie cugine se mi avessero vista: i piedi sporchi per il lavoro in giardino, la veste annodata intorno alle ginocchia, cantando a squarciagola con la mia voce esile.

Queste ultime parole che ho scelto del testo ci portano al senso pieno del concetto di individuazione. Non è una meta bensì un percorso, un viaggio. Arrivare non è l’obbiettivo. Il viaggio diventa l’elemento centrale. L’individuazione è una chimera verso cui si tende senza veramente arrivare mai. Il che è una fortuna. Se arrivassimo il viaggio perderebbe di interesse.
Durante il viaggio perdiamo qualcosa, solitamente ciò che non ci appartiene veramente, impariamo a mischiare gli elementi (le nostre parti interne), a conoscerli profondamenti e a capire quando usarli e a quale scopo.
La prima e l’ultima tappa del viaggio siamo noi anche se non possiamo dire che siano la stessa cosa. Grazie al racconto di Circe sappiamo che alla fine troveremo un essere umano che ha lasciato andare i vincoli che lo imprigionavano e che ha cercato e scoperto quanto più possibile della sua natura e della sua unicità.
Un essere umano che ha infine ritrovato la sua voce.

SE VUOI PUOI LASCIARE UN TUO COMMENTO QUI SOTTO
Segui questi commenti
Notificami
guest
0 Commenti
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti